Vivere per la vanagloria: un virus che spesso resta asintomatico
Esistono “due glorie” – una piena e una vuota – che possono impegnare il cuore degli uomini in modo che, viste da fuori, due persone dedite a ciascuna di esse appaiano e sembrino perfettamente uguali ed entrambe buonissime. Discernere l'una dall'altra è cosa che richiede un “tampone” dal foro interno.
Ieri pomeriggio ho appurato, visionando il volantino di una importante festa liturgica, che un mio amico è stato nominato monsignore. Ho colto l’occasione per scrivergli un messaggio di affettuoso motteggio: «Ehi, ma si fa così? Diventi monsignore e neppure me lo dici? A che servono questi titoli se non a potersene vantare con gli amici?».
«Ai matti piace il rosso» (s. Pio X)
Il prete in questione è un bravo operaio nella vigna del Signore che in più occasioni ha già dimostrato di essere decisamente refrattario a certe glorie effimere: «Secondo te – gli chiedevo in tempi non sospetti – qual è il fondamento scritturistico del canonicato [cioè del titolo di “canonico”]?». E lui, con quella sua aria sorniona, dopo aver sostato alquanto in riflessione, ha sentenziato: «Venite in disparte e riposatevi un poco» (Mc 6,31). E giù a ridere fino alle lacrime.
A ridere di noi stessi, precisiamo, non delle tradizioni e delle istituzioni della Madre Chiesa, che ovviamente non sono tutte sullo stesso livello: «Ditemi – aveva chiesto (più gesuanamente che gesuiticamente) papa Francesco il 7 ottobre 2019 –: che differenza c’è tra portare in testa delle piume o il tricorno che usano alcuni officiali dei nostri dicasteri?».
Né mi posso scordare di quando il compianto padre Mucci mi aveva raccontato del patriarca Giuseppe Sarto (il futuro papa Pio X) che andava a San Servolo e San Clemente a fare la visita pastorale ai manicomî in pompa magna cardinalizia spiegando a chi glie ne chiedeva conto (perché esporre i preziosissimi abiti di porpora ai rischi del caso?):
«Ghe piase el rosso!»
"Ti rendi conto – commentava con me l’anziano gesuita – come quel bravo pastore disprezzasse l’onorificenza nella sua mondanità e la sottomettesse invece a un risvolto pratico ispirato ad alta carità pastorale? Divertire i matti ed essere ben accolto da loro!"
La “settima malattia” della Curia
Facilmente si sarebbe tentati di leggere in senso sarcastico il motto del patriarca Sarto, ma sarebbe fuori strada chi ne volesse assumere la sentenza generale per cui «chi ama il rosso è matto»: eppure c’è una pazzia, tristemente lucida, che avvince le menti e i cuori di non pochi ecclesiastici – un po’ come se la porpora fosse ricavata dal sangue del mitico Nesso! Nel 2014 papa Francesco stigmatizzò la settima malattia spirituale della Curia in tal modo:
"La malattia della rivalità e della vanagloria: quando l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificenza diventano l’obiettivo primario della vita, dimenticando le parole di san Paolo: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,3-4). È la malattia che ci porta ad essere uomini e donne falsi e a vivere un falso misticismo e un falso “quietismo”. Lo stesso San Paolo li definisce «nemici della Croce di Cristo» perché «si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Fil 3,18.19)."
Gli ecclesiastici che sono affetti da questa subdola malattia non sono necessariamente come i “cattivi” di certe mediocri fiction italiane sui santi, cioè accigliati, musoni e rigidi: essi possono invece essere totalmente asintomatici (visto che all’uso della parola ci siamo abituati tutti), ossia non manifestare alcuno di quei sintomi che ci si aspetterebbe nel carrierista bramoso di insegne e di pennacchi. Essi possono invece comprendere lucidamente (o anche subliminalmente) che il modo per ottenere quei dati onori non è brigare e tramare, bensì agire come dei perfetti e leali collaboratori nutrendo la ragionevole fiducia che i (segretamente bramati) riconoscimenti verranno.
Tale sintomatologia risulta dunque così neutra che diventa quasi impossibile, dal foro esterno, individuare il virus (il “falso quietismo” di cui parla il papa): serve “un tampone”, anche lì, cioè un prelievo di campione intimo, dal foro interno, in un dialogo cuore a cuore, perché se è vero che «dov’è il tuo cuore, là sarà il tuo tesoro» (Mt 6,21), in quei casi il tesoro sembra al suo posto, cioè nel cuore, mentre ne sta al di fuori per pochi decisivi centimetri – ossia quelli che separano l’abito dall’interno della cassa toracica.
Non diciamo questo per un’ingenua rappresentazione del cuore spirituale come identico all’omonimo organo, ma perché è il vestito, invece, ad avere una forte connotazione spirituale: “abito” è non a caso parola che designa tanto il vestito quanto una virtù… o un vizio. Quando una persona trova e colloca la propria pace nel proprio vestito, magari laboriosamente ricercato – quasi tessuto nel desiderio! – e finalmente indossato, essa appare solitamente pacificata (almeno se e finché non prende ad ambire ad altro più alto abito…), ma la verità è che il suo cuore è sordamente inquieto perché proiettato a un onore in realtà miserrimo, per quanto sia tenuto in alta stima in certi segmenti del consorzio umano (ad esempio, le piume in testa hanno fatto [scioccamente] sorridere in Vaticano, ma il tricorno farebbe [scioccamente] sorridere in Amazzonia).
La santa indifferenza e l’“agere contra”
Per questa ragione tutta la vasta tradizione ascetica moderna (e lo si intenda in senso lato: dal medioevo a oggi) ha esaltato e minuziosamente analizzato la costruzione e la conservazione di quella peculiare disposizione d’animo che passa sotto il nome di “indifferenza” (o “santa indifferenza”). L’orecchio contemporaneo potrebbe facilmente confondere questa virtù con la peste (oggi disgraziatamente endemica) dell’apatia, ma l’adespota Imitazione di Cristo, gli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola e la Filotea di Francesco di Sales – per limitarci solo a tre pesi massimi – sono stati scritti troppo prima degli Spleen di Baudelaire…
"Mano a mano che la modernità avanzava si sono accentuate anche quelle considerazioni spirituali che – lo ricordava il già menzionato padre Mucci nel suo ultimo articolo su La Civiltà Cattolica – faceva esprimere i predicatori in maniera ossessiva sui particolari più ripugnanti della corruzione a cui è sottoposto, dopo la morte, il corpo umano". (Giandomenico Mucci, La spiritualità del morire, in La Civiltà Cattolica 4091, 500-506, 502)
Collateralmente alle meditazioni sulla caducità del corpo, se ne abbinavano anche sugli abiti, secondo questo duplice criterio:
- o considerando che quegli onori sono ancora più caduchi del corpo umano, e certamente insignificanti nella morte (la famosa “livella” di Totò);
- ovvero sottolineando che quegli abiti tanto desiderati sopravvivono beffardamente nell’armadio di chi, per essi, ha lasciato nuda di virtù la propria anima e ora se ne va privo di questa e di quelli.
Non sono stati pochi, poi, quelli che hanno stressato abbondantemente l’espediente ignaziano dell’“agere contra” per costruire pazientemente, in sé e negli altri, la disposizione alla “santa indifferenza”: vuoi una cosa? E allora chiedi e ti dài il contrario,
"In modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati. (Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, regola 23)
Facile a farsi (si fa per dire) quando si tratta di atti esteriori… un po’ meno immediato quando invece si parla di atti eminentemente interiori e per loro natura quasi inafferrabili, come sono appunto i desiderî. Corrispondendo con una dama presentatagli dal vescovo di Belley, che con lui si era confidata quanto ai turbamenti dovuti a certi moti dell’anima, il 7 luglio 1610 Francesco di Sales si raccomandò:
"Figlia mia, l’amor proprio non muore mai, se non con il nostro corpo: ci tocca sempre avvertire i suoi attacchi sensibili o le sue pratiche segrete, finché siamo in questo esilio. È sufficiente che non acconsentiamo di un consenso voluto, deliberato, puntuale e prolungato […]."
Si finisce immediatamente fuori strada se ci si illude di poter quindi positivamente dare ai desiderî cattivi “un consenso non-voluto, non-deliberato, non-puntuale e non-prolungato”, perché tale è esclusivamente il consenso irriflesso, cioè previo all’esame della coscienza. Il confine è labile? Non sempre, in effetti, ma talvolta sì: proprio per questo i grandi santi hanno sempre suggerito di abbondare con la prudenza, piuttosto che rischiare di essere travolti dalle tentazioni.
Il cilicio va bene, ma non sempre e non per tutti
Le quali attaccano peraltro su più fronti: è noto come Matteo Ricci (al pari di altri grandi servi di Gesù Cristo) portasse abiti sontuosi per le sue missioni apostoliche… e per non indulgere alla vanagloria frapponesse tra la morbida seta delle vesti da mandarino e la propria pelle dei rigidi strumenti di mortificazione. L’occasione dovrebbe poter chiarire una volta per tutte il senso di questa operazione, che non era (e non è) volta a disprezzare la realtà corporea, bensì a dominare per suo mezzo le aberrazioni di quella spirituale: anche il cilicio è difatti un mezzo efficace ma non privo di controindicazioni, perché è facile credersi santi quando ci si dà a certe mortificazioni.
Per questa ragione soprattutto, oltre che per quelle legate alla preservazione dell’integrità fisica, i maestri dello spirito raccomandano di non praticare quei rigori se non nell’àmbito di un costante colloquio col direttore spirituale: la storia è piena di anime «pure come angeli ma orgogliose come demonî» (secondo l’icastica formula di mons. Hardouin de Péréfixe, arcivescovo di Parigi, al ritorno da una visita pastorale a Port-Royal). Quando il cilicio non basta si deve digiunare, pregare di più e praticare più opere di misericordia, accogliere meglio le umiliazioni che vengono da fuori (sempre molto più amare di quelle che ci diamo per posa).
Né ci si dovrebbe meravigliare, a questo punto, che l’amore per gli onori ecclesiastici e per gli abiti che li rappresentano sia detto “cose della terra” da Paolo e dal papa: è certissima infatti la sua estraneità all’Evangelo di Cristo e anzi il conflitto con gli scopi salvifici del Regno. Tutto questo vale per gli officiali della Curia Romana, evidentemente, ma anche per quelli di tutte le curie del mondo, perfino della più remota dagli splendori romani e dai suoi purpurei miraggi.
La “gloria vuota”: una diagnosi per chierici e per laici
E per i laici? Vale anche per loro? Ma certo… “Vanagloria” è una parola su cui si farebbe bene a riflettere meglio di quanto generalmente si faccia: essa è l’esatto calco latino del greco “κενοδοξία” [kenodoxía], composta come il corrispettivo di un aggettivo che indica il vuoto e di un sostantivo che esprime la gloria. Ora, in greco “gloria” si esprime con un termine quanto mai ambiguo – “δόξα” [dòxa] – che viene dal verbo adibito a indicare l’apparenza in tutte le sue forme (“δοκέω” [dokèo]) e che quindi finisce per significare anche “opinione”, perfino intesa come fallace e in contrasto con la ben fondata “scienza”. “Gloria” è tutto ciò che appare alla percezione, e per questo esprime sia la rivelazione di Dio e della sua visione sia la proiezione estroflessa del narcisismo umano.
Proprio a correggere l’indeterminazione semantica di “δόξα” è stato inventato il vocabolo che descrive appositamente la gloria vuota, quell’apparenza priva di sostanza alla quale sarebbe pericolosissimo – virtualmente fatale! – appoggiare la propria vita. E certo non serve essere officiali di una qualche curia o chierici in un qualsivoglia grado, per ambire a “un vestito” che ci renda “più rispettabili”, “più potenti”, “più invidiabili” dagli altri miserabili che ogni giorno c’industriamo a impressionare con qualche gioco di prestigio (meglio o peggio riuscito). A tutti noi infatti – chierici o laici che siamo – parla Gesù domandando:
"E come potete credere, voi che ricevete gloria [δόξα] gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene dal solo Dio?" (Gv 5,44)
E non a caso anche Matteo, principe dei Sinottici, ha collocato nel mezzo del grande discorso della montagna il grande monito sugli abiti e sulle apparenze:
"Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito?
"Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta". (Mt 6,25-33)
Sono parole vere e liberatrici: meditarle diuturnamente è il solo antidoto possibile alla settima malattia curiale.
Fonte: Giovanni Marcotullio in Aleteia.org
Copyright: Tutti i diritti di eventuali testi o marchi citati nell'articolo sono riservati ai rispettivi proprietari.
Liberatoria: Il contenuto non impegna, nè dipende dalla Parrocchia S. Matteo di Riese Pio X. I siti terzi raggiungibili da eventuali links contenuti nell'articolo e/o dagli annunci pubblicitari sono completamente estranei alla Parrocchia, il loro accesso e uso è a discrezione dell'utente.
Nota: L'articolo potrebbe riferire risultati di ricerche storiche, mediche, psicologiche, scientifiche o sportive che riflettono lo stato delle conoscenze raggiunte fino alla data della loro pubblicazione.