L’ultimo pontefice finora canonizzato dalla Chiesa Cattolica (ndr: l'articolo è del 2012) veniva dalla marca trevigiana, era figlio di gente umile (padre fattore, madre sarta) e in tutta la sua vita ecclesiastica non ebbe cattedre universitarie, non scrisse celebrati libri, né praticò in alcun modo la carriera diplomatica. Nulla fece, insomma, che potesse far immaginare non solo dove un giorno sarebbe arrivato, cioè all’onore e all’onere più alto di questo mondo, ma soprattutto ciò che avrebbe poi fatto e scritto.
Santo e austero nell’anima e nel corpo
Di più. Giuseppe Sarto (Riese, 2 giugno 1835 – Roma, 20 agosto 1914) era di carattere mite, pacifico, assolutamente dolce (ma mai sdolcinato: anzi, sempre fermo nella difesa delle sacrosante norme liturgiche, dottrinali e morali della Chiesa, e questo fin dalla gioventù), costantemente intento al servizio della carità fraterna, in nome della quale, da seminarista, da sacerdote, da vescovo, da Patriarca e infine da Papa, spese sempre tutto ciò che aveva, privandosi sovente anche del suo personale per sovvenire ai più svariati bisogni della vita quotidiana delle sue pecorelle, vicine e lontane (celebre quanto si spese per i terremotati di Sicilia nel 1908, insieme a san Luigi Orione).
Dalla vita austera (sveglia alle 4 e a letto a mezzanotte, cibo poco e sempre accettato senza proteste o pretese di alcun genere, viaggi pochi, ore e ore di meditazione e preghiera giornaliere), alieno da ogni forma di nepotismo (non avvantaggiò mai nessuno della sua famiglia), fu sempre costantemente occupato al servizio della Chiesa e del prossimo: ovunque fu mandato a svolgere la sua missione (seminarista a Padova, 1850-58), vicario del parroco a Tombolo (1858-67), arciprete a Salzano (1867-75), canonico della Cattedrale e direttore spirituale del seminario diocesano a Treviso (1875-84), vescovo a Mantova (1884-93), Patriarca a Venezia (1893-1903), Pontefice Massimo della Chiesa Cattolica a Roma (1903-14), lasciò della sua persona e del suo operato un ricordo meraviglioso in tutti, e ovunque fu sempre amato, da tutti ritenuto santo, e poi rimpianto.
Se Giuseppe Sarto, insomma, ha potuto fare la “carriera” che ha fatto (e che, puntualmente, lui ha sempre tentato di “frenare” in ogni modo, e sempre con maggior pathos man mano che si vedeva salire ove egli in precedenza non poteva neanche immaginare, sebbene alla fine sempre obbediente a ogni incarico la Provvidenza gli affidasse tramite i suoi superiori), non fu per quelle caratteristiche di “fascino” intellettuale o arte diplomatica e politica oggi troppo necessarie per essere considerato e notato negli ambienti tanto mondani quanto purtroppo sovente anche nelle stesse gerarchie ecclesiastiche; ma fu anzitutto per le sue incontenibili doti di bontà e generosità personali, che apparivano immediatamente non solo dalle sua azioni quotidiane ma anche dal suo stesso sembiante, sempre, dalla giovinezza alla morte, fatto di pura bellezza del volto e maestosa e allo stesso tempo umile personalità, come evidente traspare dalle foto che abbiamo di lui nelle varie fasi della sua benedetta esistenza.
La Verità nella carità
Era necessaria questa pur brevissima premessa, che meriterebbe ben altra esplicazione di fatti e prove, per chiarire una cosa a monte: san Pio X è ricordato da tutti (per alcuni come sommo merito, per altri come imperdonabile errore) come il papa che ha condannato con rigida e impietosa fermezza il modernismo e il processo di “aggiornamento” della Chiesa nel mondo odierno. Ebbene, ciò è assolutamente vero, come diremo tra poco: ma questa non è l’“essenza” della sua santità personale; la sua provvidenziale e tempestiva opera antimodernista fu conseguenza della sua santità personale. San Pio X non è santo perché fu antimodernista. Fu antimodernista perché era santo. E lo fu nella misura in cui era santo.
Giuseppe Sarto, figlio di umile gente, che studiò seriamente (come allora era usuale per ogni sacerdote cattolico) ma che mai poté realmente approfondire gli studi teologici, fu santo per la sua carità che gli proveniva dall’amore senza confini per l’Eucarestia.
Questo amore per Cristo Eucaristico e per la Chiesa lo illuminarono in tutta la sua vita ecclesiastica, e soprattutto nel suo operato di Pontefice, permettendogli sia di intuire – come nessun altro esimio teologo del tempo era riuscito a fare – le radici filosofiche profondamente malsane del modernismo (cioè di vedere fino in fondo la serietà del male da curare e di conoscerlo perfettamente), sia di trovare l’energia divina per combatterlo senza falsa pietà e per attuare i sistemi per renderlo inoffensivo.
Come era solito dire, “Guai se il medico è pietoso”. E, come il suo venerato predecessore, il beato Pio IX, di cui egli era devotissimo, non ebbe esitazioni a scrivere la verità e ad agire di conseguenza quando si trattò di proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione, di condannare, con l’Enciclica Quanta Cura, tutti gli errori del mondo moderno, e infine di proclamare il dogma dell’Infallibilità papale, così san Pio X non ebbe esitazione alcuna nella fermissima condanna del modernismo, “sintesi di tutte le eresie” e di tutte le relative pubblicazioni, istituzioni e anche degli uomini ad esso asserviti.
Quello stesso “umile sacerdote di campagna”, così semplice, caritatevole e buono, divenne, una volta alla guida della barca di Pietro nella tempesta, il salvatore della retta dottrina, il più fine e attento dei teologi, il più profondo dei filosofi, il più energico dei leader religiosi, il più impietoso (contro l’errore) dei medici spirituali.
“Veritatem facientes in caritate” sarebbe ben potuto essere il suo motto programmatico di Pontefice. Egli scelse invece “Instaurare omnia in Christo”. Ma, a ben vedere, è la stessa cosa. È sempre un figlio devoto dell’Apostolo delle Genti che usa la spada spinto dal fuoco del suo amore per Dio e per il prossimo.
La guerra al serpente modernista
Per concludere il già accennato discorso della sua condanna del modernismo, questo sue righe rendono bene l’idea di quanto il pio e mansueto Giuseppe Sarto sapesse lasciare il passo alla fermezza senza ipocrisia del Pastore che deve ottemperare al suo dovere di difendere il gregge dall’assalto dei lupi, e di quelli peggiori, come era leggiamo.
Nella sua prima lettera al clero e popolo veneziano, dopo aver denunciato apertamente i mali del secolo, così scriveva: «Non si può chiamare ministro di Cristo, nel pessimo tempo in cui viviamo, chi si rifiuta di vegliare. I cattolici liberali sono lupi coperti dalla pelle degli agnelli; perciò il sacerdote che è veramente tale deve svelare al popolo commesso alle sue cure le loro perfide trame, i loro iniqui disegni. Sarete chiamati papisti, clericali, retrogradi, intransigenti. Vantatevene e non badate punto alle derisioni e ai dileggi dei perversi. Ma son molti. Non monta: nella Sacra Scrittura è detto: “Infinito è il numero degli stolti”».
Una volta pontefice, la sua guerra all’errore micidiale del cancro interno alla Chiesa divenne senza quartiere. L’11 giugno 1905 pubblicò l’Enciclica Il Fermo proposito – scritta per infondere all’Azione Cattolica il carattere di «milizia corroborata dal cibo di Cristo» e per sottrarla agli influssi modernisti – con la quale sciolse l’Opera dei Congressi (ormai infettata dalle eresie di Romolo Murri), ricostituendo poi il sodalizio suddiviso in tre rami, l’Azione popolare, l’Unione economico-sociale e l’Unione elettorale, affidandolo a uomini di piena fiducia, fra cui il beato Giuseppe Toniolo.
Il 3 luglio 1907 condannò altre opere e 65 proposizioni con il decreto Lamentabili sane exitu, cui fece seguito la costituzione del “Sodalitium Pianum”, che aveva anche l’incarico di indagare su teologi, prelati e docenti sospetti di modernismo
Poi, il passo gigantesco dell’uomo umile che tutto può in Colui che lo sostiene: l’8 settembre 1907 pubblicò l’Enciclica Pascendi dominici gregis, vero monumento di profondità teologica e sapienza filosofica, che fulmina il modernismo in ogni sua manifestazione filosofica, teologica, biblica, storica, critica e sociale; condanna i libri, gli opuscoli e i periodici propugnanti tali errori e sospende immediatamente quei “maestri” che con i loro scritti e coi loro insegnamenti li propalavano.
Condannò in modo speciale del modernismo le origini immanentistiche, causa dell’agnosticismo ad esso connesso, e quindi le teorie per le quali si minavano la supremazia dell’ordine soprannaturale, di quello spirituale (l’attivismo e quindi l’americanismo), l’autorità dei libri santi, la Tradizione e il magistero della Chiesa, e si subordinava di contro la fede (compresi i dogmi) all’evoluzione della scienza, si riducevano le Sacre Scritture a ispirazione ed esperienza personale, e si predicava la separazione fra Stato e Chiesa.
Degno della scelta del suo nome
Era la grande medicina del medico che ha come sola preoccupazione la salute del paziente, e nient’altro. Possiamo dire che la Pascendi è all’interno della stessa Chiesa Cattolica quello che la Quanta Cura del beato Pio IX fu per il mondo: la lama tra il bene e il male, il vero e il giusto e l’errore, il peccato, l’eresia. Forse per questo ogni volta che Giuseppe Sarto veniva a Roma andava in visita a San Lorenzo fuori le Mura, sulla tomba di Giovanni Mastai Ferretti, il Papa di cui poi un giorno avrebbe ripreso il nome.
E per riuscire ancora più incisivo nella sua guerra alla menzogna, ricorse nuovamente al sistema già utilizzato in altri terribili tempi da un altro suo “Pio” predecessore, quel san Pio V, salvatore della Chiesa Cattolica contro l’islam e contro l’eresia protestante, che aveva a sua volta sia codificato il culto sia realizzato, a difesa della retta dottrina, il primo Catechismo della storia.
Sulla sua scia, san Pio X scrisse un nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, questa volta più specificamente adatto ai giovani e ai semplici, sotto forma di domanda e risposta, proprio al fine di fornire ai più esposti alla diffusione dell’errore le giuste armi di difesa nella retta conoscenza della vera dottrina cattolica.
La “Crociata eucaristica”
Come detto, la sua luce spirituale e teologica, come la sua forza d’azione, gli provenivano dall’amore senza confini per l’Eucarestia. Questo era per lui l’alfa e l’omega della sua attività riformatrice.
Al riguardo, ci teneva subito a chiarire che non occorreva dire niente di nuovo, perché san Tommaso d’Aquino aveva già detto tutto e per sempre, ma occorreva riscoprire un rinnovato amore e una più profonda devozione.
Con il decreto Sacra Tridentina Synodus, della Sacra Congregazione del Concilio, 20 dicembre 1905, comandò la Comunione frequente, anche quotidiana (e per questo ridusse a tre ore il tempo necessario a poter assumere cibo prima di accostarsi alla Comunione). Tornava sull’argomento con l’Enciclica Editae saepe, 26 maggio 1910, con la quale toglieva ogni restrizione possibile all’accesso all’Eucarestia, perché non doveva mai più accadere che «i figli chiedono il Pane e non trovano chi lo dispensi».
Per la sua Crociata Eucaristica fondò la Lega sacerdotale della Comunione, la Pia Unione per la Comunione dei bambini, e poi raccomandò l’Adorazione perpetua, l’Ora santa, le giornate eucaristiche, il ripristino nelle parrocchie della benedizione quotidiana con Ss.mo Sacramento e della visita al Divino Prigioniero dei tabernacoli, favorì ovunque la nascita di pubblicazioni e iniziative eucaristiche, fino all’Apostolato della Preghiera, nato dopo la sua morte ma certamente frutto della sua strenua attività.
Soprattutto, però, raccomandò (ed ebbe anche ad affrontare resistenze interne per questo) la Prima Comunione dei bambini già a sette anni, onde evitare che, in età più adulta, la loro anima la potesse ricevere già imbrattata dall’ombra del peccato. L’innocenza del bambino che si accosta all’Eucarestia è la più forte delle armi contro il demonio, soleva dire.
La purezza del sacerdozio e del culto
Dal culto eucaristico nasceva per lui la necessità della santità dei sacerdoti, condizione imprescindibile per la diffusione del Cristianesimo nel mondo e per la salvezza delle anime. Nella sua prima enciclica, scrisse: «Cresciamo il Sacerdozio nella santità della vita e nella purezza della dottrina e il popolo si formerà in Cristo».
Nel sacerdozio vedeva il fondamento indispensabile alla realizzazione del suo programma di restaurazione di ogni cosa in Cristo (d’altro canto, pose un freno alla nascita di continue nuove congregazioni) ed era solito raccomandare ai vescovi di essere molto esigenti con la scelta dei sacerdoti: «Meglio pochi ma buoni. Che farcene se sono dubbi e indegni?».
Volle un clero colto, e per questo favorì lo studio del tomismo sulla scia del suo predecessore e fondò la Commissione Pontificia per la revisione della Vulgata e l’Istituto Biblico.
Riformò i seminari, creò il Grande Seminario Maggiore del Laterano, raccomandando ai vescovi una strenua vigilanza sui seminaristi. Ebbe a dire un giorno ai vescovi: «Vegliate sui Seminari, sugli aspiranti al Sacerdozio. Regna troppo spirito mortifero d’indipendenza per l’autorità e la dottrina! Si grida libertà, libertà, e io invece dico: Obbedienza, obbedienza!… Disciplina, disciplina!».
Condusse quasi a termine la riforma del Diritto Canonico e riformò anche alcuni Dicasteri di Curia e i tribunali ecclesiastici. Non esitò (creando un certo scandalo) ad abolire alcune feste religiose che riteneva in quei giorni inopportune e diminuì i gravami delle norme del digiuno e dell’astinenza, in quanto, come ebbe saggiamente a dire, è meglio pretendere poco e vigilare che venga realmente fatto piuttosto che chiedere molto e chiudere gli occhi sapendo che quel molto non viene rispettato.
Tali provvedimenti sono dimostrazione di un’anima tutt’altro che gretta, che, illuminata dalla Grazia, riesce a capire dove tenere duro e dove cedere proprio per poter tenere duro su ciò che veramente conta.
Grande sostenitore della solennità del culto, riformò il canto liturgico e la musica sacra, affidandosi, quando ancora era a Venezia, al giovanissimo Lorenzo Perosi per ridonare grande importanza al canto gregoriano (scrisse un Motu proprio ad hoc). “La musica sacra deve essere santa, gli esecutori pii”, soleva dire, e fra tutti prediligeva il Palestrina.
Un vero riformatore
Ancor da vescovo aveva fondato il Cittadino di Mantova, con cui condusse battaglie memorabili in difesa della Fede, della verità e del buon costume. Poi, a Venezia, si occupò di tutto: carità ai malati e ai poveri, istruzione religiosa ai fanciulli e agli adulti, associazionismo cattolico, diffusione della buona stampa, istruzione gratuita, e istituì il Banco di San Marco per aiutare gli operai in difficoltà.
Una volta a Roma, creò molte istituzioni di carità, fra cui l’Ospizio di San Pancrazio per i bambini poveri o con handicap, modernizzò le strutture tipografiche vaticane e l’Osservatore Romano, diede nuova e più decorosa sede alla Pinacoteca Vaticana. Insomma, una vera colonna della Chiesa contemporanea, in ogni suo campo e settore: restauratore e innovatore allo stesso tempo.
Giorni drammatici della storia
Come molti dei suoi predecessori sul Trono di Pietro aventi il nome da lui prescelto (Pio II, san Pio V, Pio VI e Pio VII, il beato Pio IX), e come accadrà poi anche a Pio XII, san Pio X visse momenti drammatici nella storia politica e sociale dei suoi giorni.
Alieno da esperienze diplomatiche e politiche dirette, ebbe però un “gran fiuto” nella scelta del suo Segretario di Stato, il giovane card. Rafael Merry del Val y Zulueta, sia per le sue eccellenti capacità politiche, ma sia ancor più per la sua profonda pietà personale e serietà di religioso. Insieme, seppero, per quanto possibile, fronteggiare l’aspra politica anticattolica della Francia massonica della Terza Repubblica, senza però cedere in nulla alla lotta per i principi imprescindibili.
Nel 1906 con l’Enciclica Vehementer Nos dell’11 febbraio, l’Allocuzione concistoriale Gravissimum del 21 febbraio e l’Enciclica Gravissimo Officii Munere del 10 agosto, proibì ogni attività collaborativa all’applicazione della nuova legge ed esortò i cattolici francesi a opporvisi con mezzi legali per difendere la tradizione cattolica del Paese.
Analoghe tensioni si registrarono con il Portogallo dopo l’avvento nel 1910 della repubblica guidata da gruppi di potere anticlericali massonici. San Pio X rispose il 24 maggio 1911 con l’Enciclica Iamdudum.
Non molto meglio andava in Italia. Non era passato molto tempo dai giorni drammatici dello scontro acutissimo fra le forze risorgimentali italiane e la Chiesa Cattolica, e vigeva ancora da un lato il Non expedit di Pio IX (divieto ai cattolici italiani di partecipazione diretta e indiretta alla vita politica del Regno), dall’altro il clima massonico-laicista anticattolico (Ernesto Nathan, figlio di Giuseppe Mazzini, era sindaco di Roma…), celebrato specialmente per l’ultima volta nel 50° dell’unificazione, nel 1911.
Il Papa, che sempre si era espresso a riguardo sulla stessa linea di condanna del Risorgimento di Pio IX e di Leone XIII, fu anche colui però che per primo iniziò a intuire che l’avanzata nella società italiana di errori ancor più radicali del liberalismo massonico, come il socialismo e l’anarchismo, richiedeva pragmaticità politica. E così, con l’aiuto del suo insostituibile Segretario di Stato, nel 1913, in occasione di elezioni amministrative importanti, dove forte era la possibilità di vittoria dei socialisti di Turati (e di un giovane Mussolini), egli non esitò a concedere un permesso speciale di revoca del non expedit e a permettere così ai cattolici di votare per le forze liberali, che ormai, sotto Giolitti, avevano anche in gran parte perduto la carica anticattolica e di contro si stavano aprendo al nazionalismo (operazione politica poi pienamente riuscita).
Sono infatti gli anni del nazionalismo trionfante, ed egli, che come nessun altro vedeva l’immane catastrofe che si stava preparando per l’Europa, non poteva fare nulla per evitarla. Questo è un punto fondamentale, per vari aspetti.
Anzitutto, perché egli ebbe, come riconosciuto nel processo di canonizzazione da molti, capacità profetica indiscutibile: il “guerrone”, come lui lo chiamava, sarebbe puntualmente arrivato, avrebbe distrutto l’Europa e sarebbe cominciato nel 1914 (e a chi provava a smentirlo o perlomeno a ridurre la portata della possibile guerra, egli sempre rispose a tono con certezza assoluta di quanto stava prevedendo).
Poi, perché egli un giorno, sempre più conscio della follia suicida dei governi europei, offrì pubblicamente la sua vita a Dio per scongiurare la catastrofe.
Infine, perché ne morì di crepacuore il 20 agosto 1914, due settimane dopo le dichiarazioni di guerra e due settimane prima dell’inizio della mostruosa strage della Somme. Come fu detto allora, fu la prima vittima della Grande Guerra! (e, forse, anche del dolore accumulato in tanti anni nella sua lotta senza quartiere al tumore modernista).
Santo!
Tutto quanto detto in poche righe fu da Giuseppe Sarto comprovato nella maniera più sublime che a un uomo possa spettare: con una serie innumerevole di guarigioni scientificamente inspiegabili. I due miracoli allora necessari anche per la beatificazione (proclamata il 3 giugno 1951) furono scelti fra decine di guarigioni avvenute quando egli era ancora vivo! I due della canonizzazione, avvenuta il 29 maggio 1954 (la data di culto fu fissata il 3 settembre, nel calendario del Novus Ordo Missae è invece il 21 agosto), fra le numerose guarigioni accadute post mortem attribuite al suo intervento soprannaturale.
Giuseppe Sarto visse una vita splendida di carità e povertà (anche da pontefice), fatta di amore per la giustizia e di servizio totale e senza remore alla Verità. L’amore per Dio era la fonte della sua caritatevole bontà verso il prossimo come della sua indomita forza di guerriero che combatte fino alla morte per la difesa della fede sotto attacco e della Chiesa assediata da nemici non solo esterni, ma ormai soprattutto interni, verso i quali comprende senza ipocrite remore buoniste che l’unica vera pietà possibile è la loro estirpazione dal corpo mistico di Cristo.
Uomo di carità, Papa al servizio della Verità e della purezza, santo innamorato di Cristo Eucarestia e di Maria Immacolata, alla quale dedicò un’apposita enciclica non appena salito al Trono di Pietro (Ad Diem Illum Laetissimum, 2 febbraio 1904).
Fonte: Massimo Viglione in Riscossa Cristiana (> English text) - Traduzione di Franco Pellizzari.
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